Friday, May 23, 2025

Il pretesto cinese. Gli intrecci con Pechino che Trump usa per torchiare Harvard


I legami dell'ateneo con il colosso cinese Xpcc, accusato di sfruttare la minoranza uigura, 2,6 milioni di dipendenti che lavorano a programmi di ricerca militare, alcuni di essi a Boston con borse di studio pagate dalla stessa azienda

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 maggio 2025

Perché Donald Trump minaccia di togliere all'università di Harvard il permesso di iscrivere studenti stranieri (6.800 su 25mila, più di un quarto)?

Fra le varie accuse spicca quella di avere coltivato legami con una grande impresa  paramilitare cinese: la Xpcc (Xinjiang Production and Construction Corps). Si tratta di un gigante economico con 2,6 milioni di dipendenti che opera nell'immensa regione della Cina orientale, lo Xinjiang, patria degli uiguri musulmani.

Sotto lo stretto controllo del partito comunista, la Xpcc è una specie di stato nello stato che fattura 50 miliardi di euro, il 20% del pil in quell'instabile territorio di frontiera: fabbriche, fattorie, coltivazioni, ma anche tribunali, prigioni, polizia. È accusata di deportare gli uiguri in campi di concentramento, lavoro e rieducazione politica, con violazioni dei diritti umani e addirittura pratiche genocidiarie. Per questo è stata sanzionata da Usa, Canada ed Europa.

Ciononostante l'università di Harvard si avvale di fondi del dipartimento della Difesa Usa per finanziare progetti di ricerca militare cui hanno accesso specializzandi cinesi arrivati a Boston con borse di studio della Xpcc.

Un programma di Harvard finito nel mirino della Commissione d'inchiesta della Camera Usa sul Partito comunista cinese, guidata dal repubblicano John Moolenaar, è la China Health Partnership. Ai suoi insegnamenti di politica sanitaria hanno partecipato dirigenti della Xpcc.

"Temiamo che le risorse e i servizi erogati attraverso questi corsi possano violare le leggi statunitensi, e aiutare la Xpcc a continuare la repressione degli uiguri e di altre minoranze etniche in Cina", ha scritto Moolenaar ad Harvard, spalleggiato da Tim Walberg, pure lui deputato repubblicano del Michigan, presidente della commissione Istruzione e lavoro, e dalla trumpiana di ferro newyorkese Elise Stefanik. I tre richiedono i documenti interni che organizzano queste partnership con possibili "avversari stranieri". 

Un'altra collaborazione controversa dell'ateneo del Massachusetts è quella con la Tsinghua University cinese sui delicatissimi 'zero-index materials' per l'intelligenza artificiale grazie a fondi federali militari Darpa (Defense advanced research projects agency). 

Ci sono poi gli scienziati di Harvard che lavorano con la Zhejiang University sulla ricerca dei polimeri, con preziose applicazioni per l'industria aeronautica e quindi foraggiata dall'Air Force Usa, così come un programma con la Huazhong University sulle 'leghe a memoria di forma', altro campo d'avanguardia. 

I tre politici repubblicani intimano l'ovvio ad Harvard: "I vostri scienziati non devono contribuire allo sviluppo di capacità militari da parte di un potenziale avversario".

Il problema è che sono tanti i campi scientifici al confine col pericoloso 'dual use' (sia civile che militare): microelettronica, meccanica quantistica, intelligenza artificiale. Per non parlare della collaborazione Harvard-Cina sui trapianti d'organo, dati i crescenti sospetti internazionali su provenienza e metodi d'espianto degli organi da parte di Pechino.

Naturalmente sono dilemmi che riguardano non solo Harvard, ma ogni maggiore università statunitense. Trump ha preso di mira quelle più di sinistra, come anche la Columbia di New York, ma anche la conservatrice Stanford in California soffre il taglio dei fondi federali sulla sanità. 

Ora Harvard ha tre giorni di tempo per fornire al governo e al Congresso i documenti richiesti. È difficile che l'università possa rinunciare a migliaia di rette studentesche straniere dal valore astronomico: 83mila dollari annui ciascuna, quasi sempre integrate con borse di studio. 

Ma poiché l'ammissione a un'università Usa fornisce un diritto pressoché automatico al prezioso visto per motivi di studio, è inevitabile che il governo voglia esercitare un qualche scrutinio su questo terreno di sua esclusiva competenza. Anche perché la Cina fra migliaia di studenti e scienziati può sempre infilare qualche insospettabile spia. Non si arriverà a espulsioni di massa di studenti stranieri dagli Stati Uniti: ci sarà un accordo con Harvard, oppure ci penseranno i giudici a bloccarle. Ma i 277mila studenti cinesi negli Usa verranno sicuramente passati al setaccio. Il Ministero degli Esteri di Pechino ha condannato la decisione dell'amministrazione Trump, definendola una mossa di "politicizzazione dell'istruzione". 

Wednesday, April 23, 2025

Milan non l'è un gran Milan. La diocesi più grande d'Europa è assente al conclave

È la prima volta che succede da un secolo e mezzo. L'arcivescovo Mario Delpini, 73 anni, da otto sulla cattedra di Sant'Ambrogio, non è mai stato nominato cardinale da Bergoglio. Pare che il motivo sia la mancata sorveglianza sul caso di un prete accusato di pedofilia. Un'assenza clamorosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 aprile 2025 

Milano, la diocesi più grande d'Europa, non parteciperà all'elezione del Papa. È la prima volta che succede, da un secolo e mezzo. Il suo arcivescovo Mario Delpini, 73 anni, da otto sulla cattedra di Sant'Ambrogio, non è mai stato nominato cardinale da papa Francesco. Pare che la ragione sia la mancata sorveglianza in passato sul caso di un prete accusato di pedofilia. Ma i cinque milioni di fedeli battezzati della diocesi ambrosiana (su 5,6 milioni di abitanti) sono amareggiati. E a loro si associano quelli di Venezia, il cui patriarca è anch'esso privo di porpora cardinalizia. 

Sarà un'assenza clamorosa, perché tutti i papi italiani del '900, tranne il romano Eugenio Pacelli, sono venuti da Milano e Venezia: Albino Luciani (Giovanni Paolo I), Giovanni Battista Montini (Paolo VI), Angelo Roncalli (Giovanni XXIII), Achille Ratti (Pio XI), Giuseppe Sarto (Pio X). E Carlo Maria Martini lo sarebbe diventato se non si fosse ammalato.

La diocesi di Milano si estende ben oltre i confini della sua provincia: copre mezza Lombardia, da Varese a Lecco, da Monza a Treviglio (Bergamo). Anche in Svizzera, nel canton Ticino, molte zone seguono tuttora il rito ambrosiano. E la ferita si è acuita quando nel 2022 è diventato cardinale Oscar Cantoni, vescovo di Como, sede secondaria. Quasi una beffa. 

Milano è la quarta diocesi più grande del mondo, superata soltanto da Kinshasa (Congo) con sette milioni di battezzati su dodici milioni di abitanti, Guadalajara (Messico) con sei milioni e San Paolo (Brasile), 5,1 milioni. Però i loro arcivescovi sono tutti cardinali. L'ultimo milanese non cardinale fu Luigi Nazari di Calabiana (1867-93), ma solo perché era troppo legato ai Savoia (addirittura senatore del regno di Sardegna), in un'epoca segnata dal conflitto stato-chiesa dopo la breccia di Porta Pia. 

Neanche Parigi parteciperà al conclave, il suo arcivescovo non è cardinale. Curioso invece che lo sia il vescovo della piccola Ajaccio in Corsica, meta dell'ultimo viaggio di Bergoglio. E in Italia vantano un cardinale Agrigento e Siena, mentre Palermo ne è priva.

Anche all'estero il papato di Francesco ci lascia delle incongruenze. In Mongolia i 1.400 cattolici (lo 0,04% dei 3,3 milioni di abitanti) sono così pochi che non hanno neppure una diocesi: la loro è una prefettura apostolica. Ciononostante, nel 2022 è stato inopinatamente creato cardinale il simpatico e aitante ex boy scout cuneese Giorgio Marengo, allora 48enne, prefetto apostolico nella capitale Ulan Bator. Era il cardinale più giovane del mondo fino all'ancor più singolare nomina durante l'ultimo concistoro nello scorso dicembre di un ucraino 45enne, Mykola Byčok, che però non vive nel suo Paese bensì in Australia, a guidare i 36mila cattolici ucraini emigrati lì. 

In Marocco il colonialismo non è finito: i 22mila cattolici (su 33 milioni di abitanti) possono contare sul cardinale arcivescovo di Rabat Cristobal Lopez Romero, spagnolo. Francesco ha incardinato anche il vescovo di Tonga (12mila cattolici su centomila abitanti, meno di una qualsiasi parrocchia italiana) e quelli di Papua Nuova Guinea o Timor Est. Invece interi stati come Venezuela o Bolivia, con decine di milioni di cattolici, non hanno neanche un cardinale elettore. 

Bergoglio aveva un debole per l'Asia. Possono contare su un cardinale la Birmania, mezzo milione di fedeli su 50 milioni di abitanti (l'uno per cento) o la Thailandia, con 300mila su 60 milioni. Da quattro mesi c'è perfino un cardinale, non iraniano, per i 62mila cattolici persiani: un frate cappuccino belga. L'Iran ha 92 milioni di abitanti, quindi i cattolici rappresentano lo 0,6% della popolazione. 

Certo, il collegio cardinalizio non funziona come un parlamento mondiale della Chiesa. Oltre ai criteri di rappresentanza il papa tiene conto di altri fattori: valorizzazione delle periferie, singoli vescovi premiati per la loro opera pastorale, per il loro apporto intellettuale o di devozione. D'altra parte, succede così anche nelle grandi democrazie laiche: negli Usa il Wyoming (mezzo milione di abitanti) ha due senatori come California (40 milioni), Texas (30) o New York (20). 

Speriamo che lo Spirito Santo illumini i porporati nella cappella Sistina, spingendoli a eleggere un Santo Padre che torni a essere paterno e comprensivo anche per la negletta Milano. 

Tuesday, April 15, 2025

La Svizzera a modo suo. Dibatte su come trattare con Trump, poi mette sul tavolo 162 miliardi

Qui le aziende private non chiedono sovvenzioni, come in Italia, ma danno al governo i fondi per evitare i dazi. Novartis da sola stanzia 23 miliardi, Roche altri 10. E poi gli altri giganti: Nestlé, Rolex, Abb, Bühler, Stadler

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 15 aprile 2025

"Niente trattative con i regimi neofascisti. Non dobbiamo assolutamente cedere ai ricatti di Trump". Parola di Jacqueline Badran, la politica più votata della Svizzera: 150mila preferenze alle ultime elezioni del 2023. Il suo partito socialista con il 18% è il secondo del parlamento elvetico, dietro l'Unione democratica di centro col 28%. Karin Keller-Sutter, presidente federale svizzera, liberale (14% dei voti), ha invece telefonato a Donald Trump, spedendo a Washington Helene Budliger Artieda, direttrice del potente Seco, il segretariato dell'Economia di Berna. Sarà lei la plenipotenziaria che negozierà sui dazi, fissati arbitrariamente dal presidente Usa al 31%, contro il 20% per l'Unione europea.

Chi avrà la meglio, fra queste due posizioni apparentemente inconciliabili? Quella innaffiata dai soldi, naturalmente. Cioè dai 150 miliardi di franchi svizzeri (circa 162 miliardi di euro) che la signora Budliger prometterà di investire negli Usa durante i prossimi quattro anni. Perché i socialisti possono inveire finché vogliono contro il "neofascista Trump". Ma al governo ci sono anche loro, con due ministri su sette: formula fissa dal 1959, due ciascuno a Udc e liberali, più uno a un partitino di centro. E questa grossissima coalizione non verrà scalfita neanche dalle mattane di Washington. Quindi la signora socialista Badran con il suo estremismo verbale potrà fare il pieno dei voti antitrumpiani alle prossime elezioni, ma nulla di più.

Anche perché i 150 miliardi da offrire a Trump non sono soldi pubblici: provengono dalle multinazionali svizzere che prevedono di investirli in fabbriche e impianti negli Stati Uniti. Contrariamente all'Italia, dove gli imprenditori minacciati dai dazi si sono affrettati a chiedere allo stato 25 miliardi di provvidenze pubbliche, in Svizzera sono le aziende private a dare al governo i fondi per evitarli.

Novartis da sola stanzia 23 miliardi, la concorrente farmaceutica Roche altri dieci. E poi gli altri giganti: Nestlé, Rolex, Abb, Bühler, Stadler che produrrà treni negli Usa. In totale, la Camera di commercio svizzero-americana stima che verranno superati agilmente i cento miliardi, fino a sfiorare i 150: "Sono investimenti che in buona parte avremmo effettuato comunque".  C'è un importante risvolto in questo pacchetto elvetico: comprende anche l'istruzione professionale e l'addestramento per i loro nuovi dipendenti statunitensi. Proprio quello che vogliono i fautori della reindustrializzazione trumpiana. 

La ciliegina sulla torta, infine, è la promessa di acquistare altri aerei da guerra F-35 e sistemi di difesa Patriot made in Usa. In barba, ancora una volta, alle proteste della socialista Badran: "Non compriamo più armamenti dagli Usa, cancelliamo gli F-35. Se dobbiamo spendere miliardi in nuove armi, facciamolo con i nostri partner europei". Difficile che succeda. Perché così recita l'antico motto della politica estera svizzera: "Riparati e cerca di cavartela". Se funzionò con Hitler, andrà bene anche con Trump. 

Saturday, March 08, 2025

Il giulivo Pd per il no di Salvini al rearm di Meloni

"Bravo Matteo, ora ascoltaci anche su sanità, salario minimo e trasporti". L'imbarazzante post sulla pagina Instagram dem

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 8 marzo 2025

"Bravo Matteo, ora ascoltaci anche su sanità, salario minimo e trasporti". Il Pd è felice per il no di Salvini alla politica estera di Giorgia Meloni e così, come si dice in politica, cerca di infilarsi nelle contraddizioni della maggioranza per farla esplodere. O almeno per incrinarla, logorarla, metterla in difficoltà.

"No alle armi!". Ecco il nuovo slogan per la seconda metà del secondo decennio del primo secolo del terzo millennio. Una svolta epocale, che affratellerà Pd (perlomeno quello di un post ufficiale su Instagram in un pomeriggio di sabato, a Milano è ancora carnevale) e quel che resta della Lega contro i Fratelli d'Italia, in nome del pacifismo.

No a quali armi? Non sottilizziamo. Il messaggio dev'essere chiaro e semplice. Quindi no agli 800 miliardi di Ursula von der Leyen, perché solo su questo Elly Schlein e Matteo vanno d'accordo. 

Il Pd però dice sì all'integrazione delle forze armate Ue con i suoi 81 differenti stati maggiori (27 Paesi con tre armi ciascuno), mentre Salvini su questo è sovranista come Giorgia. Così come detesta Emmanuel Macron e la sua offerta di estendere al continente l'ombrello nucleare francese.

Sull'Ucraina, poi, finora c'è stata sempre solidarietà nazionale. Ma l'ha rotta Giuseppe Conte, e figurarsi se Salvini gli lascia i voti pacifisti.

Insomma, se la spregiudicatezza può essere una virtù in politica, l'occhiolino del Pd a Matteo è comprensibile. Magari fra un po' cancelleranno il post dicendo che era uno scherzo goliardico. In fondo abbiamo già sperimentato due anni di governo democratico-grillino, e allora perché non un trio Elly-Matteo-Giuseppe in nome della pace?

Anche perché ormai Meloni non può più essere accusata di essere atlantista, aggettivo evaporato dopo la svolta trumpiana. E se Trump si allea con Putin, potrà il Pd fare lo stesso con la Lega?

Ieri è mancato Pasquale Laurito, lo storico estensore della Velina rossa. Ai suoi tempi il severo Pci avrebbe liquidato la fantasiosa apertura a Salvini come "avventurismo".

Temiamo che per gli odierni dirigenti Pd questa parola significhi solo "turismo di avventura": rispondere con battute alle battute d'avanspettacolo di Giorgia.

Wednesday, March 05, 2025

I vescovi europei duri contro Putin e Trump. Oltre il pacifismo ecumenico di Francesco

La Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea pubblica un documento dai toni inusuali, contro l'aggressione del Cremlino e le narrazioni della Casa Bianca: "Respingiamo fermamente qualsiasi tentativo di distorcere la realtà"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 marzo 2025  

L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia è "ingiustificabile". "Siamo grati alla Ue che ha fornito un sostegno al popolo ucraino": non solo umanitario, politico ed economico, ma anche "militare". Perché l'Ucraina lotta "per il destino dell'intero continente europeo e di un mondo libero e democratico". Ieri i vescovi Ue, riuniti nella Comece (Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea), hanno pubblicato un documento dai toni inusuali, lontani dal pacifismo ecumenico di papa Francesco. 

"Il popolo ucraino soffre da più di tre anni", scrivono i prelati della Commissione, alla cui presidenza siede dal 2023 il vescovo di Latina monsignor Mariano Crociata (nomen omen?), "e gli siamo vicini". Essi affermano di pregare per morti e feriti di entrambi gli schieramenti, e ci mancherebbe. Ma anche per "chi continua a difendere la propria patria", ovvero soltanto gli ucraini. 

I vescovi europei picchiano duro su Vladimir Putin: "L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia è una palese violazione del diritto internazionale". Auspicano che la Corte penale internazionale prosegua nel suo procedimento contro il presidente russo: "L'uso della forza per alterare i confini e gli atti atroci commessi contro i civili richiedono una ricerca di giustizia e responsabilità". E alla Russia toccherà pagare: "La comunità internazionale deve assistere l'Ucraina nella ricostruzione delle infrastrutture distrutte. La Russia, l'aggressore, deve partecipare adeguatamente a questo sforzo".

Ce n'è anche per Donald Trump: "Una pace integrale, giusta e duratura può essere raggiunta solo attraverso negoziati. Qualsiasi sforzo di dialogo deve essere sostenuto da una forte solidarietà transatlantica e deve coinvolgere la vittima dell'aggressione: l'Ucraina. Respingiamo fermamente qualsiasi tentativo di distorcere la realtà di tale aggressione".

L'imbarazzo in Vaticano per questa dura presa di posizione dei vescovi europei è palpabile. Il sito ufficiale Vatican news l'ha pubblicata solo in inglese, francese e tedesco. I canali italiano e spagnolo l'hanno confinata in poche righe all'interno di un altro articolo. 

Saturday, March 01, 2025

Hácha, chi era costui? Zelensky ricorda il presidente ceco maltrattato da Hitler



Una scena come quella della Casa Bianca non si era mai vista, e non la si raccontava dal 1939. Perché, ogni volta, non preannuncia niente di buono. Piccolo excursus storico, dal führer a Trump

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 marzo 2025

All'una della notte fra il 14 e 15 marzo 1939 il presidente della Cecoslovacchia, Emil Hácha, viene ricevuto da Adolf Hitler nel palazzo della Cancelleria di Berlino. Cinque mesi prima il suo Paese è stato amputato del 15% del territorio (come oggi l’Ucraina): i Sudeti finiscono alla Germania, in base agli accordi di Monaco. Che però non placano l’ingordigia nazista. Il führer fa aspettare Hácha per ore prima di incontrarlo. Poi, entrato nella sala con il ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, intima ad Hácha: “Firmi questo foglio per chiedere la protezione del Reich”. Hácha rifiuta (come ieri Volodymyr Zelensky con Donald Trump sulla cessione delle terre rare e le garanzie di sicurezza): “Non posso, devo almeno consultare i miei ministri”. “Non è questo il momento di trattare, ma di prender nota delle irrevocabili decisioni del popolo tedesco!”, gli risponde Hitler. Che firma e se ne va… 

Ribbentrop rivela ad Hácha che quattro ore dopo, alle sei del mattino, l’esercito tedesco invaderà quel che resta della Cecoslovacchia. Al 66enne presidente boemo viene un infarto. Dopo qualche iniezione si riprende, gli viene permesso di telefonare a Praga svegliando qualche suo ministro. Tiene duro fino alle 4 del mattino. Poi capitola. Anche il suo predecessore Edvard Beneš era stato umiliato a Monaco nel settembre ’38: neppure ammesso alle trattative fra i quattro Grandi (proprio come oggi Zelensky).

La rottura di ieri alla Casa Bianca è una primizia della storia mondiale. Mai era successo che uno scontro fra due capi di Stato venisse trasmesso in diretta mondovisione. Finora i vertici internazionali, anche i più burrascosi, erano sempre stati protetti dalla discrezione diplomatica. Quando si litiga lo si fa a porte chiuse, e nel successivo comunicato si scrive che è avvenuto “un franco scambio di vedute”.

Leggendari sono rimasti gli scatti degli statisti più irascibili, come il generale Charles De Gaulle. Hitler e Stalin invece erano gelidi. Il führer perse le staffe solo con l’ammiraglio ungherese Miklós Horthy e con il cancelliere austriaco Engelbert Dolfuss, che poi fece assassinare. Il 5 gennaio 1939 Hitler invita a Berchtesgaden il ministro degli Esteri polacco Jozef Beck con la moglie. Mentre bevono un tè gli intima di cedere Danzica alla Germania. Beck è riluttante. Sappiamo come finì: otto mesi dopo Hitler e Stalin si spartiscono la Polonia. 

Dobbiamo al Kgb la trascrizione della drammatica telefonata di un’ora e venti minuti fra il sovietico Leonid Breznev e il cecoslovacco Alexander Dubček del 13 agosto 1968: “Caro Sasha, devi far smettere gli attacchi anticomunisti dei giornali di Praga”. “Stiamo facendo il possibile”. “Ci avete ingannati, avete sabotato gli accordi”. Il 20 agosto i tank, questa volta dell’Armata rossa, invadono di nuovo la Cecoslovacchia trent’anni dopo i nazisti. 

Lo scontro recente più violento fra occidentali è quello dell'estate 2015 del premier greco Alexis Tsipras contro Angela Merkel e Mark Rutte durante il vertice Ue che costringe Atene a cedere sul proprio debito. Urla, a notte fonda Tsipras abbandona la sala. Poi rientra e all’alba arriva la firma. 

E gli italiani? Notevole il dissidio fra Bettino Craxi e Maggie Thatcher sempre in un summit Ue, a Milano nel 1985. Brutte conseguenze per il presidente Antonio Segni, colpito da ictus il 7 agosto 1964 durante un’accesa discussione col premier Aldo Moro e Giuseppe Saragat (era l’estate del “tintinnar di sciabole”, con pericoli di golpe veri o presunti).

Per il resto, si scivola nella sceneggiata. Come quella dello scontro fra Beppe Grillo e Pier Luigi Bersani a un tavolo in diretta social nel 2013, o ddel “Kapò”, dieci anni prima, lanciato da Silvio Berlusconi al tedesco Martin Schulz nell’Europarlamento. La più memorabile resta il “Che fai, mi cacci?” di Gianfranco Fini a Berlusconi nel 2010. Ieri Zelensky è stato cacciato veramente dalla Casa Bianca trumpiana. Ma questa volta il video dopo dieci minuti era su tutti i cellulari del pianeta. 

Thursday, February 27, 2025

Un würstel va di traverso a Radio radicale

Prima censura nell'emittente libertaria

24 febbraio 2025
Tu quoque, Roberta! Questa mattina Roberta Jannuzzi, la magnifica rassegnista stampa di Radio radicale, ha commesso peccato mortale. Ha detto che non avrebbe detto il titolo principale del quotidiano Libero, perché non vuole scendere al livello dei tabloid.
Cosi, spinto dalla curiosità sono corso in edicola a comprarlo. Delusione: sulla prima pagina del giornale diretto da Mario Sechi campeggia la scritta 'S'è bruciato il würstel', riferito alla 'caduta di Berlino' (nell'occhiello) e al voto tedesco.
Speravo in qualcosa di molto più pruriginoso, un altro accenno alla patata come ai tempi di Virginia Raggi, oltretutto i tuberi sono tipici della Germania. Oppure un urlo politicamente scorrettissimo degno di Daniele Capezzone, già segretario del partito della Jannuzzi e oggi direttore editoriale di Libero. Invece niente. Solo una salsiccia, che dai tempi di Benito Jacovitti non scandalizza più nessuno.
Avrei assolto il peccato di omissione di Roberta, la rassegnista più brava d'Italia, se fosse andato in onda su qualsiasi altra radio o tv. Ma non sull'emittente radicale. Che si vanta a ragione di essere "la voce di tutti", libertaria, sia provocatoria che ecumenica.
Marco Pannella, il suo fondatore, Massimo Bordin, grande direttore e rassegnista, e anche Lino Jannuzzi (nessuna parentela), altro direttore storico, non solo avrebbero dato spazio al würstel, ma ci avrebbero imbastito su un bel dibattito. Per puro spirito di contraddizione.
Non c'è bisogno di scomodare Karl Popper e la necessità, per un liberale, di sottoporre sempre a verifica le proprie opinioni, arrivando alla loro 'falsificazione' ("e se fosse vero il contrario?"). Basta essere un po' rompiballe o possedere curiosità intellettuale.
"Nel 1946, sedicenne, al liceo compravo due copie del giornale Risorgimento liberale", raccontava Pannella, "una per me e una per suscitare dibattito fra i compagni di classe", molto più a sinistra di lui.
Uno dei miei massimi piaceri di pannellologo (sì, ho all'attivo tre biografie non autorizzate su Marco, una vera mania) era scrivere articoli che punzecchiavano i radicali, per poi ascoltare la mattina dopo Bordin insultarmi sarcasticamente in rassegna stampa, e a volte incassare pure gli improperi di Pannella che non resisteva alle critiche e si collegava in diretta.
Insomma, cara Roberta, non ti ho mai incontrato né parlato, ma la tua voce soffice e precisa accompagna da anni i miei risvegli fino a ingelosire mia moglie, nonostante l'auricolare per non disturbarla o forse proprio per questo.
Quindi per favore non costringermi a comprare giornali solo perché colpiti dalle tue dolci e insensate censure. E poi cos'hai contro i tabloid? Sono quelli con i titoli più divertenti: quando lavoravo a New York leggevo sempre il popolare, volgare e irridente New York Post prima del sussiegoso Times di stoca' per farmi una bella risata.
Gli stessi titoli icastici di Libero, d'altronde, li verga da anni il Manifesto, magari più sofisticati ma sempre liberatori. Perciò coraggio: non temere la diversità, la destra e i würstel.